Voci della seconda guerra mondiale

RAIMONDO CAPELLUTO UNA FAMIGLIA EBREA NEL VORTICE DELLA PERSECUZIONE RAZZIALE

Avevano affidato i loro averi, una valigetta contenente gioielli, pietre preziose ed una collezione di marenghi, ad un faccendiere che si era conquistato la fiducia degli Ebrei, perennemente in fuga da un paese all’altro per sfuggire alle persecuzioni razziali.
È Raimondo Capelluto, ebreo fortunatamente scampato alla deportazione nei lager nazisti, a raccontarcelo nel giardino della sua casa di campagna a Cunardo.
Gli dà man forte la moglie, signora Antonietta Tolio, una donna decisa e determinata.
Si esprime con una simpatica parlata che rivela la sua origine veneta, ha una memoria di ferro e non le sfugge nessun particolare.
Anche lei, durante la guerra, si era trovata nel vortice di un gorgo che l’avrebbe potuta inghiottire.
La sua famiglia, infatti, era stata costretta ad ospitare il comando tedesco, proprio nel momento in cui nella cantina aveva accolto un gruppo di partigiani braccati dalle SS.
Fu giocoforza nasconderli all’interno delle botti e gestire le frequenti visite del medico per curarne le ferite.
La madre una volta fu messa al muro.
Fortunatamente lei ed i suoi otto fratelli furono sempre difesi da un capitano tedesco.

Raimondo Capelluto

Anche durante i rastrellamenti, l’uomo dichiarava sbrigativamente: «No, tutti bambini miei».
In realtà, sostiene la signora Antonietta, i più crudeli non erano i Tedeschi, ma i Mongoli, prigionieri che avevano accettato di entrare nel corpo delle SS1.
L’odissea dei Capelluto l’ha sentita raccontare tante volte anche lei dal suocero ed è quindi perfettamente in grado di colmare eventuali lacune nel racconto del marito.
Di questo controverso personaggio i Capelluto ricordano però solo il cognome: Zamboni, una specie di doppiogiochista che si destreggiava su due tavoli.
Una figura equivoca, riverito dai fascisti e dalle SS che ossequiava col saluto romano.
Zamboni si professava comunque amico della famiglia Capelluto e sembrava accreditato anche presso i parroci dei paesi dove gli Ebrei trovavano ospitalità.
Una peregrinazione senza sosta da un luogo all’altro, appena si profilava il pericolo di un imminente rastrellamento.
Ed erano appunto i sacerdoti a sollecitare un rapido trasferimento altrove.
A quell’epoca Raimondo, classe 1936, era ancora un bambino, ma assolutamente in grado di rendersi conto della drammaticità della situazione.
Il padre David gestiva un grande emporio di tappeti a Rodi, successivamente depredato dai tedeschi che si portarono Antonietta Tolio Capelluto via tutta la merce.
La famiglia però aveva ascendenze spagnole.
Gli antenati erano probabilmente fuggiti nel periodo dell’inquisizione, come comprovava la conoscenza del vecchio castigliano da parte dei bisnonni.
A Rodi i Capelluto vantavano una larga parentela, circa 38 persone tutte deportate nei lager, 35 delle quali non fecero più ritorno.
Del resto i 1500 ebrei di Rodi furono deportati in massa nel campo di sterminio di Buchenwald, dove sarebbe perita anche la principessa Mafalda di Savoia.
Ben pochi furono i sopravissuti. 1 La stessa affermazione la troviamo in I salici sono piante acquatiche di Romano Luperini, Manni Editori, Lecce 2002: «Quando la luna tornò ad apparire per qualche attimo si accorse che non erano tedeschi, ma mongoli disertori al servizio delle SS, peggio dei tedeschi».
In realtà cosacchi, circassi, georgiani, russi e altre etnie in Carnia erano generalmente chiamati monqui, mongoli, per via dei tratti somatici asiatici di alcuni gruppi e perché il termine richiamava le antiche vicende dei predatori provenienti dall’Oriente.
Si veda in proposito Storia della zona libera della Carnia, www.carnialibera1944.it.
Non tutti i popoli di origine o discendenza mongola erano contenti di piegarsi al volere dell’Unione Sovietica.
La Germania nazista fece le opportune pressioni ideologiche sui vari movimenti indipendentisti per arruolare volontari direttamente sul posto, inquadrati nelle legioni internazionali, che combattevano se possibile con maggiore ferocia degli stessi tedeschi.
La Wolgatatarische Legion (legione Volgo-Tartara) era un’unità della Wehrmacht composta di volontari musulmani tartari del Volga, ma anche altri popoli dell’Idel-Ural: Baschiri, Ciuvasci, Mari, Udmurti, Mordvini.
Proprio i tartari derivano da una tribù mongola che abitò l’odierna Mongolia del nord nel V secolo.
La Wolgatatarische Legion fu attiva dal 1942 ed arrivò a contare 12.550 uomini.
Una delle ragioni per cui i tartati decisero di combattere per la svastica fu la religione: i nazisti non osteggiavano il credo musulmano, a differenza dei sovietici, atei e antireligiosi per antonomasia.
C’erano poi ragioni squisitamente territoriali: i volontari della Wolgatatarische Legion erano tutti asiatici le cui terre d’origine erano state annesse con la forza dall’URSS (o dalla Cina).
Dal 23 febbraio 1943 la Wolgatatarische Legion fu impiegata per la lotta anti-partigiana in Francia, Belgio, e Olanda.
Alla fine della guerra i superstiti furono rinchiusi nei gulag dai sovietici.
Guerrieri mongoli nella 2a guerra mondiale in www.mongolianviews.com

Antonietta Tolio Cappelluto

Stella Alhadeff, sua prima cugina, raccontava di essere stata presente quando il papà, la mamma e la sorella erano entrati nella camera a gas: un ricordo che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita, come un incubo notturno di cui non ci si riesce a liberare.
E il fratello Narcis, in costante lotta con la fame, aveva perfino divorato uno zoccolo di cavallo, marcio per lo più, ma qualcuno in quell’inferno, giungeva addirittura a nutrirsi di carbone.
David con la moglie Lucia Abuaf di origine turca e i due figli Leone, classe 1931 e Raimondo, classe 1936, si era trasferito a Milano nel 1939 per farsi curare da un’ostinata malattia polmonare, soggiornando per un anno e mezzo presso la clinica «La Quiete» di Varese.
I medici avevano sentenziato che l’aria di mare non gli confaceva.
Bontà loro! Non tutto il male viene per nuocere.
Se fossero rimasti a Rodi, i Capelluto avrebbero subìto la stessa sorte dei propri correligionari.
A Milano si erano stabiliti in via Settembrini, ma dopo l’8 settembre e la nascita della RSI, dovettero abbandonare la loro abitazione ed iniziare quella triste peregrinazione da un paese all’altro, con l’ansia nel cuore, incerti su un futuro che si profilava sempre più cupo all’orizzonte.
Avevano soggiornato a Gardone Riviera, Peglio, a Veglio in Val d’Intelvi, a Porto Valtravaglia, ecc.
E proprio a Como l’infido Zamboni li denunciò al locale Commissariato.
I Capelluto l’avrebbero saputo in seguito.
Il commissario, che simpatizzava con i partigiani, dopo aver congedato le SS, di fronte alle suppliche e al pianto disperato della madre, li fece uscire da una porta secondaria.
Tentarono allora una fuga verso la Svizzera dal valico di Chiasso.
Le frontiere erano però state chiuse, vennero pertanto respinti.
La soluzione migliore consigliata da più parti era quella di tornare a Milano, sotto falso nome e di stabilirsi in via Settala, 29, dove nessuno li conosceva.
Fu un parroco a suggerire di non viaggiare con la valigetta dei preziosi, ma di affidarla al faccendiere Zamboni che li avrebbe accompagnati in un vagone attiguo.
Giunto a Milano, invece, Zamboni si dileguò con la valigetta.
Si ripresentò dopo tre giorni, dicendo che gli era stata rubata.
Alla fine della guerra, anche grazie alla testimonianza del parroco che aveva assistito alla consegna dei preziosi, Zamboni venne processato e condannato.
Dopo tre mesi però purtroppo fu amnistiato.
Alla fine della guerra, la loro casa diventò il punto d’approdo degli ex deportati.
L’appartamento di via Settembrini, 56 ospitava ben 17 persone.
Una situazione non facile da gestire.
Papà David prese allora contatto con altri correligionari per collocare i nuovi venuti in altre città.
Sarebbero rimasti in famiglia per quattro anni solo i cugini Stella e Narcis.
La prima si sarebbe sposata con Jacques Rousso e Narcis sarebbe emigrato in Congo, insieme ad altri ragazzi di Rodi, che avevano già lasciato l’isola per cercarvi lavoro, negli anni ’33 e ’34, a seguito della pesante crisi economica.
Sarebbero stati proprio loro i destinatari delle foto delle ragazze tornate dai lager, inviate da papà David che si assunse la non facile funzione di sensale.
Gli auspicati matrimoni andarono a segno e la comunità ebraica poté sopravvivere anche in terra d’Africa.

by Emilio oliba